UNO SGUARDO D’INSIEME
di Titti Di Salvo
La portata del cambiamento innescato dallo smart working (o lavoro agile) sulla vita delle persone, delle imprese e delle città è stata paragonata dal sociologo Domenico De Masi a quella della rivoluzione fordista e taylorista di inizio Novecento. Il carattere del cambiamento non è già scritto e non è neutro. Dipenderà dalla lungimiranza delle scelte con cui se ne affronteranno i limiti e se ne valorizzeranno i vantaggi.
1. Lo smart working non è un cambiamento transitorio
Secondo Christine Lagarde,smart working riguarderà in Europa in via permanente il 20 per cento delle attività lavorative. L’Osservatorio del Politecnico di Milano prevede che nell’Italia post-Covid ci sarà almeno un terzo delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti in smart working. Per Unindustria di Roma, dopo la pandemia, il 40% delle attività lavorative potrebbe essere svolta in modalità agile nella Capitale. Perché se non tutti i lavori in futuro potranno essere svolti da remoto, a Roma, città del terziario, si concentrano molte delle attività che possono esserlo. Lo smart working cambia il rapporto tra le persone, il lavoro e l’impresa. Cambia le imprese pubbliche e private e la loro l’organizzazione. Cambia il rapporto tra il tempo dedicato dalle persone al lavoro, alla cura, al divertimento e stravolge la distinzione degli spazi in cui si svolgono i diversi momenti della loro vita e della vita delle città.
Certo, ciò che abbiamo visto in questi mesi assomiglia più al telelavoro ma è sufficiente per valutarne l’impatto, per apprezzarne i vantaggi e leggerne i limiti, che dal punto di vista delle lavoratrici, dei lavoratori e dell’impresa andranno affrontati con la contrattazione collettiva aziendale e territoriale e con una legge leggera di sostegno: dalle regole sulla disconnessione e sulla formazione, a quelle sul salario e sull’orario, alla revisione dei processi organizzativi delle imprese e al ruolo del management.
Maurizio Del Conte nel suo saggio di seguito ci indica la strada da seguire di fronte al cambiamento del baricentro della prestazione di lavoro: dal “dove e quando” a “cosa”. Maria Giovanna Onorato ci guida nella lettura dell’impatto del lavoro agile nella pubblica amministrazione, per gli utenti oltre che per chi vi lavora, e ci consentirà di leggere meglio la provocazione di Pietro Ichino sullo smart working pubblico come “sine cura”. Alcune certezze meritano dunque di essere elencate in premessa alla lettura degli approfondimenti specifici che seguono: lo smart working non fa rima con home working. Non è uno strumento di conciliazione dedicato alle donne. È una modalità flessibile di lavoro. Cambia le città e cambia l’Italia.
2. Smart working non fa rima con home working
Il lavoro da remoto nel lockdown più duro ha consentito la continuità dell’attività produttiva altrimenti impossibile. E in quei mesi ha necessariamente coinciso con il lavoro da casa. Fuori dal lockdown la coincidenza dello smart working con l’home working non è per nulla obbligatoria. Le inchieste di questi mesi sul gradimento della modalità da remoto hanno avuto risposte omogenee su vantaggi e svantaggi. Tra gli svantaggi quello che viene maggiormente segnalato è la mancanza di socialità. L’isolamento nella dimensione casalinga cioè, con tutti i suoi risvolti negativi: di mancanza di riconoscimento sociale e di accrescimento professionale attraverso lo scambio di esperienze. Di indebolimento delle tutele: nella cultura del lavoro la dimensione collettiva è stata quella dei diritti e della dignità del lavoro.
Conseguenze negative vengono segnalate anche per la qualità della connessione o per la dotazione informatica inadatta, con costi a carico delle persone. Ma il lavoro da remoto non è necessariamente lavoro da casa. I coworking, spazi condivisi di lavoro, sono luoghi attrezzati con servizi, dotazioni informatiche e standard di sicurezza accertati e accertabili. Il comune di Milano ha un albo per coworking accreditati, una convenzione con Assolombarda per utilizzare a quel fine palazzi dismessi oltre che palazzi di proprietà pubblica, e sta sperimentando nearworking, di prossimità, in modo da non disperdere i vantaggi acquisiti dalla cancellazione dei tempi dello spostamento casa lavoro. A Roma un co-working, l’Alveare, aveva conquistato le pagine del New York Times. Era gestito da una cooperativa di giovani donne e offriva anche servizi ai genitori per la cura dei bambini al di fuori degli orari dei nidi o in loro assenza. La miopia dell’amministrazione ne ha determinato la chiusura.